La bicicletta nell’arte fino alla Grande Guerra, parte seconda

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Altra puntata del nostro percorso a tappe tra bici e arte. Proseguo con il periodo che si snoda dai primi del ‘900 fino allo scoppio della Grande Guerra perché insieme al cubismo, di cui abbiamo letto nel precedente articolo, si fa strada una diversa avanguardia: il Futurismo.

Un movimento artistico che durerà molti anni con fasi e visioni sempre diverse. E che progredendo nel tempo diverrà sempre più arte di regime. Non solo da noi.

Rinnegando in un certo senso anche la bicicletta, soprattutto in Italia, perché non gradita al fascismo: troppo legata a una immagine povera, antiquata, preferendo l’esaltazione dell’automobile, simbolo di modernità e progresso tecnologico. Una visione ancora oggi condivisa, purtroppo.

Il Futurismo per sua stessa natura non si volta mai a guardare dietro, la bicicletta ha valore in sé solo come simbolo di velocità e modernità. L’arrivo massiccio dell’automobile, degli aerei, dei treni più veloci la soppianteranno presto nel simbolismo futurista.

Come sempre la mia selezione non si basa su valutazioni artistiche, non ho competenze per giudicare. La scelta degli artisti e delle opere segue il filo comune della bicicletta che supera se stessa per divenire di volta in volta specchio o strumento della società, delle sue evoluzioni nel costume, delle istanza politiche trasmesse attraverso l’arte. Che però col Futurismo sono assai più blande, non del tutto assenti è vero ma pur sempre secondarie rispetto a quanto visto nei precedenti articoli.

Lo sguardo al solito è quello del cronista, non dello storico né del critico d’arte.

Parto dalla Russia zarista, con la Rivoluzione d’ottobre da lì a venire ma con i suoi semi che già germogliano per parlarvi di Natalia Goncharova.

Nobile, imparentata con Aleksandr Puškin, possidente di numerose tenute e villaggi a sud di Mosca. Quanto di più lontano dagli artisti squattrinati che abbiamo conosciuto per le vie di Parigi.

Nel 1898 entra alla Scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca come studentessa di scultura, percorso che poi abbandona a favore della pittura. Lei stessa motiverà tale scelta in questi termini: “La scultura non può trasmettere i sentimenti evocati dalla natura, la fragilità commovente di un fiore o la freschezza di un cielo primaverile. Incantata dal gioco di luci e armonia di colori, ho rinunciato alla scultura“.

L’opera selezionata a tema ciclistico è del 1913, titolata semplicemente “Il ciclista”.

La scelta del soggetto non è passionale ma funzionale alla visione futurista della Goncharova. Una metafora figurativa della propria attività, chi meglio del ciclista si adatta ai propositi di immagine in movimento (che fa il ciclista se non correre, accelerare via simile al vento?) e di veduta simultanea (chi meglio del ciclista vede scorrere la città intorno a sé in rapida sequenza?).

Il dipinto è costruito come per accumulazione, costringendo entro un’unica tela differenti paesaggi urbani, percezioni progressive di un ciclista lanciato a folle corsa per le vie della città: vediamo insegne di vetrine, segnalazioni forse ferroviarie, cappelli esposti ancora in una vetrina, indici puntati verso una certa direzione, il lastricato stradale. Le immagini sono attraversate da raggi di luce che si proiettano in ogni direzione, imprimendo alla composizione una tensione ulteriore.

L’intero repertorio di forme sono simboli della modernità: il ciclista, o meglio la Goncharova, li coglie e li documenta rivolgendosi ad essi come una macchina da presa in costante movimento.

Ho sempre ritenuto “Il ciclista” una delle più belle opere d’arte dove è raffigurata una bici, grazie al dinamismo che la Goncharova riesce a imprimere a qualcosa di statico, racchiuso nella tela. Vien quasi da seguirlo con lo sguardo aspettandosi che abbandoni i ristretti confini stabiliti dalla cornice.

Ma ovviamente non ho scelto questo dipinto solo per le sue indubbie qualità artistiche. L’ho fatto per rendere omaggio a una donna russa, una delle pochissime donne artiste dell’epoca, che rimarcò sempre la propria indipendenza. Non solo dalla forti convenzioni sociali della Russia zarista ma anche dai dettami del Futurismo come stava sviluppandosi in Europa. Ripudiando la visione della guerra come salvifica, “la sola igiene del mondo” come la definirono quelli che al riparo dei loro salotti mandavano ragazzi a morire al fronte; e benché nobile, cosa che faceva la differenza a quei tempi, mai profittò dei suoi fortunati natali, ribellandosi a ogni regime. Quello zarista a cui mai volle conformarsi, quello leninista a cui mai volle cedere.

Una indipendenza a cui tanti artisti dopo la Grande Guerra rinunceranno, preferendo godere il caldo tepore al focolare del potere.

E’ un personaggio interessante, vi consiglio di approfondire la sua storia, scoprirete che tante cose che oggi ci appaiono originali e moderne, lei le aveva già fatte. Non ne ho certezza assoluta ma credo sia stata la prima a organizzare quello che oggi chiamiamo flash mob, per le vie della capitale Russa.

Noi adesso diamo per scontate la libertà di espressione o quella di pensiero, anche se sovente manca il pensiero e restano solo le parole in libertà. Ai primi del ‘900, in società chiuse e classiste, dove la parità di genere non era nemmeno immaginabile, il semplice dissenso era un crimine, andare contro le convenzioni sociali significava divenire un reietto. Essere oggi controcorrente è fin troppo facile, talmente facile che ormai sfocia nel conformismo.

Natalia Goncharova è qui perché testimonia il coraggio e se vogliamo la testardaggine, per le sue opere conobbe anche la prigione, poi assolta dalle accuse. 

Mi piace pensare che scelse di dipingere “Il ciclista” non solo per il movimento o la modernità. 

Mi piace pensare che lo fece perché vide nella bicicletta l’essenza stessa della libertà. Di tutte le libertà.

La seconda opera scelta è ancora nel filone del Primo Futurismo e la dobbiamo a un artista nostrano: Umberto Boccioni.

Nel corso della sua breve vita, morì al fronte ma cadendo da cavallo durante una esercitazione (non in combattimento e chissà quali pensieri durante il ricovero all’Ospedale militare di Verona, lui interventista arruolatosi volontario, della banalità delle circostanze della propria morte), fu letteralmente ossessionato dal dinamismo.

Boccioni non era interessato alla rappresentazione fine a se stessa di un certo atleta o di un determinato sport, ma ciò che lo colpiva e che cercava di fissare nelle proprie opere era il movimento, il dinamismo di una figura in moto.

Il suo fu un approccio scientifico, decine e decine di bozzetti per studiare il gesto atletico, il movimento, la contrazione dei muscoli. Non fu interessato al solo ciclismo ma qui, dove protagonista resta la bicicletta, non prenderò in considerazione le altre opere.

No, qui merita il suo spazio “Dinamismo di un ciclista”, del 1913.

Nel Manifesto dei pittori futuristi dell’11 febbraio 1910 leggiamo: “…che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica; che nell’interpretazione della natura occorrono sincerità e verginità; che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi“.

Cosa significa che “il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi”? Osservate un ciclista in azione, osservate le ruote della sua bicicletta… Cosa vedete? Un corpo in movimento non si presenta uguale ai nostri occhi rispetto a uno immobile. Di una bicicletta ferma siamo in grado di distinguere perfettamente tutti i componenti e perfino i raggi delle ruote, ma se la bicicletta è in movimento ciò sarà impossibile.

Mi rendo conto che l’opera è di difficile comprensione, manca di immediatezza.

Eppure anche se a prima vista non sembra, c’è un meticoloso studio anatomico e dinamico, come testimoniano i numerosi bozzetti e di cui vi propongo uno stralcio.

Sono loro che testimoniano l’approccio da studioso che Boccioni aveva nei confronti di questo dipinto. Nel “Dinamismo di un ciclista”, non vediamo il ciclista in un momento particolare della corsa, ma l’esperienza totale del suo rapido movimento, che lo trasforma nello spazio e nel tempo.

Ma soprattutto se lo interpretiamo con l’aiuto dei bozzetti, almeno io che ho bisogno di aiuto, vediamo il gesto atletico, comprendiamo la velocità, la forza e persino la fatica del ciclista come mai fino a questo momento. 

E’ fuor di dubbio che ideologicamente Boccioni mi è assai lontano, come tutto il Futurismo soprattutto dal primo dopoguerra in poi, ma questo non significa che intenda censurarlo.

L’arte non deve avere limiti e staccati, solo le sciocchezze vanno cancellate senza che possano invocare la libertà di pensiero in assenza di pensiero.

Quest’opera di Boccioni, anzi i suoi bozzetti, dovrebbero essere esposti in ogni studio di medicina dello sport come ovunque ci sia chi si occupa in modo professionale di posizionamento, biomeccanica e dinamica del ciclismo.

Con cognizioni anatomiche ridicole rispetto a quelle attuali, Boccioni ha saputo catturare non solo con l’occhio dell’artista ma anche con quello dello specialista ciò che noi ogni giorno proviamo in sella alla nostra bicicletta.

Vi cito solo brevemente Mario Sironi, Il ciclista, del 1916.

Mario Sironi aderì al Futurismo, condividendo l’esperienza bellica di “volontario ciclista” con Marinetti.
“Il Ciclista” quindi appartiene a questo periodo, ma la pittura dell’artista si dimostra già molto personale. Infatti Sironi non pare interessato a rendere il movimento – tema fondamentale del Futurismo – dal momento che in questa opera i campi di colore sono netti e l’attenzione cade sui volumi.

La segnalo più che altro per mostrare che il Futurismo in questo periodo seppe anche offrire rappresentazioni più realistiche, di più facile lettura. Ma comunque in un certo senso fini a se stesse, guizzi privi di quella tensione che abbiamo visto in altre correnti artistiche.

Col futurismo mi fermo, benché altre opere ci siano, se avete voglia cercate Gerardo Dottori, Il ciclista, 1914. 

Mi fermo perché come detto in apertura, la bicicletta fu protagonista e simbolo solo nel primo periodo. Ma lo fu in quanto tale, per le sue doti di velocità e modernità, senza quell’aura rivoluzionaria, di rottura o di denuncia che invece seppero dargli artisti di altre correnti.

Se tutto si riduce a modernità e velocità è normale che dopo poco sarà soppiantata da veicoli più moderni e veloci. Del resto il Futurismo col suo voler fare tabula rasa del precedente non può far durare a lungo nulla. E malgrado il suo avanguardismo, o forse proprio per esso, si conformò troppo spesso alla volontà dei potenti per essere davvero dirompente.

La bicicletta già con l’avvento della Grande Guerra inizia a perdere in Europa la sua modernità, diviene oggetto più comune; in Italia come nella Francia del Nord, nel Belgio, nelle zone rurali della Germania, è sempre più associata alle classi meno abbienti.

Vero che i prezzi ancora non sono alla portata di chiunque, ma nel complesso costa meno di un cavallo e del suo mantenimento e permette a tanti di muoversi in velocità per le campagne. O recarsi in fabbrica.

La sua immagine inizia ad essere associata a una idea di società che i governi nazionalisti intendono debellare, come vedremo meglio nel periodo tra le due guerre.

E come efficacemente ci mostra Laurits Andersen Ring, che qui in basso vediamo ritratto da Elisabeth Wandel.

Artista danese fu pioniere del simbolismo e del realismo sociale. In chiave pittorica quello che poi sarà il neorealismo nel nostro cinema.

Nessun astrattismo, nessuna scomposizione, nessuna iperbole: la fotografia del suo tempo. Riprodotta con tratti delicati, mai rabbiosi, mai indecisi, persino pedanti nella loro perfezione se vogliamo.

Poco conosciuto da noi, ho scelto di mostrare qui una sua opera: Aspettando il treno, passaggio a livello a Roskilde Haughway, del 1914.

Un uomo attende il passaggio del treno, con calma, una serenità nello sguardo che lascia intendere l’assenza di affanni. I dettagli sono curati, il fango sugli stivali, l’abbigliamento, le molle del sellino, le venature del legno.

Nemmeno qui abbiamo quel piglio rivoluzionario che spesso cerco ma l’opera merita di essere vista e citata perché la cura del dettaglio e la maestria di Laurits Andersen Ring sono una fotografia dell’epoca con un realismo difficile da trovare in altre correnti artistiche dell’epoca.

E ci aiuta a comprendere l’evoluzione economica e sociale della bicicletta.

Chi è quest’uomo? Non un nobile come quelli ritratti nella Parigi di fine ‘800 mentre sostano al café per rinfrancarsi dalla blanda pedalata al parco e che abbiamo visto nell’opera di Zandomeneghi

Non un atleta proteso verso la vittoria, tutto muscoli ed energia esplosiva per gli ultimi metri nel velodromo di Roubaix come quello proposto da  Jean Metzinger.

Ma non è nemmeno un membro delle classi più povere, la giacca è di buona lana, guanti e stivali sembrano fatti per durare, la bicicletta stessa è certamente un modello di buona gamma, la sella è una Brooks o assai simile, c’è anche la borsa da telaio.

Però la barba è incolta, tutto quel fango schizzato fino alle ginocchia significa che ha percorso strade malmesse, forse abita in campagna, magari ha una sua fattoria con uomini alle dipendenze ma non disdegna lavorare anche lui la terra.

O forse è un operaio, magari di grado più alto, un capo settore potremmo dire adesso, che sta recandosi al lavoro e fissa lo sguardo sul treno in arrivo calcolando quanto tempo gli servirà ancora per arrivare in fabbrica.

O chissà, fissa semplicemente l’orizzonte perso nei suoi pensieri.

Non lo sappiamo, l’autore non ha mai voluto rivelarlo lasciando a noi decidere cosa preferiamo leggere nell’opera.

La bici non è di per sé protagonista ma la sua presenza è naturale, non appare fuori luogo.

Ecco, quello che mi ha colpito è proprio questo: il segno che ormai la bici è popolare, è entrata nelle quotidianità delle masse, non più elitaria, stravagante quasi.

E’ iniziata una nuova era, la bici si appresta da qui a pochi anni a diventare simbolo di riscatto sociale e strumento per uscire dalla miseria.

Ma di questo parleremo un’altra volta.

Buone pedalate

…….

La bicicletta simbolo di dinamismo ed emancipazione nella pittura di fine ‘800

La bicicletta nell’arte fino alla Grande Guerra, parte prima

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